UN TEATRO NAPOLETANO
"Tutti i teatri napoletani, dal «San Bartolomeo» al «San Carlo», dal «San Carlino» alla «Partenopea», dalla «Fenice» al «Rossini» e al secondo «San Carlino» adibito ad «opera dei pupi», hanno sempre trovato, ed è giusto, in ogni epoca, amorevoli scrittori di patrie cose sebezie che ne hanno consacrato la vita e gli avvenimenti in volumi ed opuscoli, destinati a rilevarne i fasti e le fortune, ed a compiangerne la decadenza e la fine.
Solo il vecchio «Politeama», le cui alterne vicende avrebbero egualmente meritato di essere illustrate e commentate nelle pagine stampate, è rimasto finora privilegio sentimentale di pochi e nostalgici cronisti, di solito legati
a quel teatro da ricordi diretti, o ereditati da più anziani celebratori.
Costruito in legno nella prima metà del secolo scorso [N.d.R.: questo testo è del periodo della rappresentazione, il 1961, e quindi il “secolo scorso” è il 1800] sull'area del giardino dell'attiguo convento dei Teatini, il teatro, riservato, di preferenza, a recite popolari e ad esibizioni di scimmiette stanche, clown invecchiati e ginnasti in declino, veniva ricostruito, ad opera dell'ingegnere Alfredo Cottrau, congiunto di Teodoro, famoso editore di canti e musiche partenopê.
Il “Poliuto”, di Donizetti, prescelto per l'inaugurazione, la sera del 28 ottobre 1871 (direttore il maestro De Giosa, interpreti principali la Bossa ed il Grillo, orchestra costituita da molti elementi sancarliani), seguito dal ballo Triton in Cina, del Fusco, non riscosse che tiepidi applausi di convenienza, ma, in compenso, i numerosi convenuti (l'incasso superò le cinquemila lire) si entusiasmarono, come informa il diffusissimo "Omnibus", per le decorazioni dei palchi, per le comode poltrone, per la sfavillante illuminazione.
Seguirono alcuni decenni tranquilli, fin quando, nel 1931, alla vigilia di un fastoso ballo natalizio, organizzato dai circoli nautici, un primo incendio (del secondo parleremo fra poco) non richiese un altro, e difficile, restauro.
In quei primi decenni, ad iniziativa di Enrico Pepe, figlio di Federico, a cui era dovuta la ricostruzione, e con il titolo, ancora mutato, di «Politeama Giacosa», l'attività del teatro, in un ritmo intenso e costante, ebbe una sua benemerita funzione nei riguardi di Napoli.
I ricordi e le notizie continuano: addio alle scene, nel '903, del vecchio Tommaso Salvini (Morte civile, Otello e Oreste); due dibattute «prime» dannunziane: “La città morta” e “La nave”. La sera del 2 novembre del '904, un'altra «prima» del poeta: “La figlia di Jorio”, seguita, la sera successiva, al «Mercadante», dalla parodia “Il figlio di Jorio”, per cui l'autore, Eduardo Scarpetta, subì un clamoroso processo, finito con un'assoluzione. Anche in quell'anno, Giuseppe Martucci dirige la «Nona» di Beethoven.
Ecco le compagnie di Zacconi e di Novelli, della Di Lorenzo e di Falconi, di Ruggeri e di Gandusio (si cita caso, naturalmente), di Dina Galli e del trasformista Fregoli; di Zago e della Borelli, di Emma Gramatica e di Govi; ecco quelle di Gea Della Garisenda, di Nella Regini, di Carlo Lombardo, di Isa Bluette e di Ines Lidelba, con “La vedova allegra” e “Il conte di Lussemburgo”, la “Mascotte” e “La figlia di Madama Angot”; ecco ancora Schwarz del “Cavallino bianco” e le strepitose serate futuriste di Marinetti. Dopo il '920, spettacoli d'ogni grado si succedono, in un ritmo meno intenso e costante.
Si applaudono Max Linder, l'impagabile comico del «muto», la «stella», Anna Fougez, Ettore Petrolini, Elvira Donnarumma, Gennaro Pasquariello, Raffaele Viviani. Il 15 giugno del '46 Eduardo De Filippo riporta “Napoli milionaria”, data nel '45 al «San Carlo»; per due mesi un ciclo di commedie scarpettiane con la compagnia di Vincenzo Scarpetta; il 7 novembre la «prima» di “Filumena Marturano” del De Filippo; il 14 agosto del '49, infine, breve ritorno alle scene di Salvatore De Muto.
Si è già fatto cenno ad un secondo incendio: il 27 settembre del '57, le fiamme distrussero in gran parte il palcoscenico e le sue attrezzature, intere file di poltrone, costumi, scene, strumenti e partiture musicali della Compagnia di Wanda Osiris che replicava da una settimana la rivista “I fuoriserie”.
Nel suo triste, desolato ed inconcepibile abbandono, ridotto come un rudere, il teatro, vecchio dei suoi ottantasei anni di attività, varia e feconda come forse nessuna degli altri teatri cittadini, sarebbe stato condannato, presto o tardi, ad essere abbattuto per far posto ad un grattacielo, ma d'improvviso, nello scorso mese di febbraio [N.d.R.: 1960 o 1961?] (e non mancarono gli scettici), si parlò di un serio, concreto e definitivo progetto di ricostruzione in corso (non era rimasta intatta che la sua struttura di origine) funzionale e moderna: sarebbe stata trasformata la platea, un più vasto palcoscenico, con gli ultimi ritrovati tecnici ed elettrici, avrebbe sostituito quello miseramente crollato, una più organica sistemazione dei palchi e dei servizi sarebbe stata ideata per rendere accogliente la sala.
Napoli, insomma, avrebbe avuto un grande, elegante teatro, accessibile a tutti, dotato di aggiornati sistemi acustici, semplice e, insieme, di suggestiva linea decorativa.
Tra le parole ed i fatti, come si dice, è sempre il mare che separa, allontana e travolge le idee, le intenzioni e i propositi, ma una volta tanto quel simbolico mare nemico ha risparmiato l'animosa iniziativa, ed il razionale progetto è stato, in undici mesi appena, realizzato. Una buona stella ha brillato per Nino Taranto, tenace, coraggioso, fervido e dinamico animatore dell'iniziativa che in questa data si conclude; e quali siano stati gli ostacoli da superare e le fatiche da compiere, apparirebbe iperbolico narrare: sarà il pubblico, ciò che conta, a considerarne il grado ed i risultati.
Rimasto legato, durante la sua lunga carriera di attore, con i pensieri e le aspirazioni, alla sua e nostra città, senza mai tentare (ed è questo il suo maggior merito) una «evasione» di compromesso fra le sue risorse ed un presuntuoso adeguamento a formule di carattere non più, in apparenza, dialettale, egli può vantare una coerenza di pratici ideali: il povero Novelli vagheggiò l'ingenuo sogno di una «Casa di Goldoni» che non poteva in effetti, come accadde, trovare riscontro di felici approdi: Taranto, vagheggiando, invece, un più realistico sogno, in tempi come i nostri, tutt'altro che propizi alle illusioni e alle astrazioni di fantasia, ha voluto un «suo» teatro, non riservato unicamente a sé ed ai suoi comici, ma aperto a tutte le compagnie, a tutti gli spettacoli, a tutte le manifestazioni degne e positive.
In quella storia da fare, bisognerà riservargli, in nome di Napoli, il posto d'onore.
ROBERTO MINERVINI
da la brochure: «Un Teatro Napoletano»